Come le nostre preferenze estetiche rivelano — e perpetuano — le divisioni sociali
L'Illusione del Gusto Personale
Pensi che il tuo amore per il jazz sia una questione di sensibilità personale? Che la tua preferenza per i film d'autore rispetto ai blockbuster rifletta semplicemente chi sei? Che il tuo fastidio per certi modi di vestire o di parlare sia un giudizio estetico neutro?
Pierre Bourdieu, sociologo francese tra i più influenti del Novecento, ha dedicato la sua carriera a smontare queste illusioni. Nel suo monumentale "La Distinzione" (1979), ha dimostrato con rigore empirico quello che molti sospettavano: il gusto non è naturale, non è individuale, e soprattutto non è innocente. È uno strumento di dominio sociale, una frontiera invisibile che separa chi sta dentro da chi sta fuori.
I Tre Capitali
Per capire la teoria di Bourdieu, bisogna partire dalla sua revisione del concetto marxista di capitale. Marx parlava di capitale economico: i soldi, i mezzi di produzione, la ricchezza materiale. Bourdieu espande questa visione introducendo altre forme di capitale che circolano nella società e determinano il potere.
Il capitale economico è quello che conosciamo: denaro, proprietà, investimenti. Ma accanto a questo esiste il capitale culturale, che comprende le conoscenze, le competenze, i titoli di studio, la familiarità con la "cultura legittima". Chi ha capitale culturale sa come comportarsi a un vernissage, quali vini ordinare, come parlare di letteratura senza sembrare pedante.
Poi c'è il capitale sociale: la rete di relazioni, le connessioni, chi conosci e chi ti conosce. Non è solo "avere amici in alto loco", ma appartenere a certi circoli, essere riconosciuto come membro di certi gruppi.
Questi tre capitali si convertono l'uno nell'altro, anche se non perfettamente. Con soldi puoi comprare istruzione (capitale economico → culturale). Con le giuste conoscenze puoi accedere a opportunità economiche (capitale sociale → economico). Con la cultura giusta puoi entrare in certi ambienti (capitale culturale → sociale). La classe dominante possiede tutti e tre in abbondanza; le classi subordinate ne hanno poco, o li hanno nella "forma sbagliata".
L'Habitus: Il Destino Incorporato
Ma come si trasmettono questi capitali? Come si impara ad avere il "gusto giusto"? Qui entra il concetto centrale di Bourdieu: l'habitus.
L'habitus è l'insieme di disposizioni durature che acquisiamo crescendo in un certo ambiente sociale. Non è qualcosa che impariamo consapevolmente: è più profondo, più incorporato. È il modo in cui camminiamo, come stiamo seduti a tavola, quali cibi troviamo "naturalmente" buoni, quale musica ci sembra bella senza doverci pensare.
Un bambino che cresce in una casa piena di libri, dove si discute di arte a cena, dove si viaggia e si visitano musei, sviluppa un habitus completamente diverso da uno che cresce in un ambiente dove queste cose sono assenti. Il primo troverà "naturale" apprezzare certe forme culturali; il secondo dovrà imparare faticosamente ciò che per l'altro è automatico — e anche quando impara, qualcosa nel suo modo di rapportarsi a quella cultura tradirà le sue origini.
L'habitus è il destino che portiamo nel corpo. È per questo che la mobilità sociale è così difficile: non basta guadagnare più soldi per cambiare classe. Devi cambiare come parli, come ti muovi, cosa trovi divertente, cosa ti disgusta. E queste cose sono radicate così in profondità che cambiarle del tutto è quasi impossibile.
Il Gusto Come Distinzione
Arriviamo così al cuore del discorso: il gusto. Bourdieu mostra che le preferenze estetiche funzionano come marcatori di classe, segnali che comunicano "io appartengo a questo gruppo" e simultaneamente "tu non appartieni".
La classe dominante sviluppa quello che Bourdieu chiama "gusto puro" o "estetica kantiana": l'apprezzamento disinteressato della forma, l'arte per l'arte, il rifiuto di ciò che è troppo facile, troppo accessibile, troppo "popolare". Amare Schoenberg invece di Puccini, Godard invece di Spielberg, l'arte concettuale invece di quella figurativa: queste preferenze segnalano appartenenza a un'élite culturale.
Le classi popolari, al contrario, tendono verso un'estetica "funzionale": preferiscono ciò che è accessibile, che intrattiene, che ha un contenuto riconoscibile. Non è che manchino di sensibilità: è che la loro formazione li ha orientati verso altri criteri di giudizio. E quando tentano di accedere alla "cultura alta", il loro modo di farlo — troppo entusiasta, troppo rispettoso, o al contrario troppo disinvolto — li tradisce.
La Violenza Simbolica
Ecco il meccanismo perverso: il gusto della classe dominante viene presentato come il Gusto in sé, come lo standard universale di ciò che è bello e di valore. Chi non lo condivide è semplicemente "ignorante", "volgare", "senza cultura". La dominazione si nasconde dietro l'apparente neutralità del giudizio estetico.
Bourdieu chiama questo "violenza simbolica": un dominio che non si esercita con la forza ma con la definizione stessa di ciò che conta. Se la scuola insegna che la vera letteratura è quella classica, e la letteratura popolare è spazzatura, i figli delle famiglie colte partono avvantaggiati. Non perché siano più intelligenti, ma perché a casa loro quella letteratura è già presente, familiare, normale.
Il sistema scolastico, in particolare, presenta come merito individuale quello che in realtà è eredità sociale. Lo studente brillante che sa già parlare come un professore, che ha già letto i classici, che si muove con disinvoltura nel mondo delle idee, viene premiato per qualcosa che ha ricevuto dalla nascita. Lo studente che deve imparare tutto da zero, che si sente sempre fuori posto, che non capisce le regole non scritte, viene penalizzato per qualcosa che non ha scelto.
Il Capitale Culturale Oggi
La teoria di Bourdieu è degli anni '70, ma le sue intuizioni rimangono attuali — anche se le forme si sono evolute. I marcatori di distinzione cambiano: oggi forse non è più l'opera lirica a distinguere le classi, ma il tipo di podcast che ascolti, i cibi che posti su Instagram, le destinazioni dei tuoi viaggi.
Anzi, le élite contemporanee hanno sviluppato forme sofisticate di distinzione che mascherano ulteriormente il meccanismo. L'"onnivoro culturale" che apprezza sia l'hip-hop che l'opera, sia il fast food che la cucina molecolare, sembra democratico ma in realtà esercita un dominio ancora più sottile: sa quando è appropriato cosa, conosce le regole di ciascun campo, si muove con disinvoltura tra mondi che altri abitano esclusivamente.
La distinzione oggi non sta tanto nel cosa ma nel come. Non importa se ascolti musica pop; importa quale pop, con quale atteggiamento, inserito in quale discorso più ampio. L'ironia, il distacco, la capacità di fruire "criticamente" anche dei prodotti di massa: queste sono le nuove forme di capitale culturale.
Oltre la Denuncia
Cosa fare con questa consapevolezza? Bourdieu era un intellettuale engagé, non solo un analista distaccato. Credeva che svelare i meccanismi di dominio fosse il primo passo per combatterli.
Ma la sua analisi non porta a conclusioni semplici. Non basta "democratizzare la cultura" se le condizioni di ricezione rimangono diseguali. Non basta cambiare i contenuti scolastici se il modo di trasmetterli continua a privilegiare chi già possiede certi codici. Non basta celebrare le culture popolari se il gesto stesso di celebrarle viene fatto dall'alto, con atteggiamento paternalistico.
Forse la lezione più profonda di Bourdieu è un invito all'autoconsapevolezza: riconoscere quanto del nostro gusto "personale" sia in realtà sociale, quanto delle nostre preferenze "naturali" sia costruito, quanto dei nostri giudizi estetici sia, in fondo, un modo di dire "io sono diverso da loro".
Non significa rinunciare ad avere gusti, o smettere di pensare che alcune cose siano belle e altre no. Significa semplicemente ricordare che quando diciamo "non capisco come si possa ascoltare quella musica", stiamo forse dicendo qualcosa di più complesso su chi siamo — e su chi pensiamo di non essere.