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Implicazioni e critiche: Vivere senza libero arbitrio

Implicazioni e critiche: Vivere senza libero arbitrio
Parte 3 di 3 — Cosa cambia se Sapolsky ha ragione

Il mondo senza merito

Se Robert Sapolsky ha ragione, le fondamenta della nostra società sono costruite su un'illusione. L'idea che le persone meritino quello che hanno — ricchezza, povertà, successo, fallimento, lode, condanna — presuppone che siano gli autori delle proprie scelte. Ma se ogni scelta è il prodotto inevitabile di cause precedenti, il merito diventa un concetto vuoto.

Pensiamo al sistema penale. La maggior parte dei sistemi giuridici del mondo è basata, almeno in parte, sull'idea di punizione retributiva: chi fa qualcosa di male merita di soffrire per questo. Non solo per prevenire crimini futuri o proteggere la società, ma proprio perché lo merita. Questa idea ha senso solo se il criminale avrebbe potuto fare altrimenti. Se non poteva — se la sua azione era il prodotto inevitabile della sua biologia, della sua storia, del suo ambiente — allora punirlo per quello che ha fatto è come punire un fiume per aver straripato.

Sapolsky non propone di eliminare ogni forma di contenimento sociale. Riconosce che alcune persone sono pericolose e che la società ha il diritto di proteggersi. Ma suggerisce di ripensare completamente il linguaggio della colpa. Un serial killer dovrebbe essere trattato come trattiamo una persona con una malattia neurologica che la rende violenta: con contenimento quando necessario, con trattamento quando possibile, ma senza odio, senza vendetta, senza la soddisfazione di vederlo soffrire.

Questa posizione è più facile da sostenere in teoria che in pratica. Quando pensiamo a crimini astratti, possiamo forse accettare che i criminali siano prodotti di circostanze sfortunate. Ma quando qualcuno fa del male a qualcuno che amiamo, la rabbia e il desiderio di vendetta emergono prepotenti. Sapolsky direbbe che anche questa rabbia è determinata, che non abbiamo scelto di provarla. Ma sapere che un'emozione è determinata non la rende meno reale o meno potente.

Meritocrazia: il mito crudele

Se il libero arbitrio non esiste, anche l'idea di meritocrazia crolla. La meritocrazia presuppone che chi ha successo lo meriti perché ha lavorato duro, ha fatto scelte intelligenti, ha investito in sé stesso. Chi fallisce, simmetricamente, è responsabile del proprio fallimento. Questa narrativa giustifica la disuguaglianza: i ricchi sono ricchi perché se lo sono guadagnato, i poveri sono poveri perché non si sono impegnati abbastanza.

Ma da dove viene la capacità di lavorare duro? Sapolsky mostrerebbe che dipende da fattori su cui non abbiamo controllo. La genetica influenza i livelli di motivazione e autocontrollo. L'ambiente precoce plasma lo sviluppo delle funzioni esecutive. Il quartiere in cui cresci determina le opportunità a cui sei esposto. La famiglia in cui nasci modella le tue aspettative e i tuoi valori. Quando qualcuno "lavora duro", sta semplicemente manifestando caratteristiche che sono state determinate da cause anteriori.

Questo non significa che l'impegno non esista o non faccia differenza. Ovviamente fa differenza se ti impegni o no. Ma la questione è un'altra: perché tu ti sei impegnato e il tuo vicino no? Se la risposta è "perché io ho scelto di impegnarmi e lui no", stiamo semplicemente spostando il problema di un passo. Perché tu hai scelto di impegnarti? Per qualcosa che era già presente in te — motivazione, valori, visione del futuro — che a sua volta era il prodotto di cause precedenti.

Le implicazioni politiche sono radicali. Se nessuno merita davvero quello che ha, la redistribuzione della ricchezza non è una violazione di diritti acquisiti — è una correzione di ingiustizie arbitrarie. Chi nasce ricco non ha fatto nulla per meritare il proprio privilegio. Chi nasce povero non ha fatto nulla per meritare il proprio svantaggio. Una società giusta, da questo punto di vista, non premia il merito (che non esiste) ma cerca di dare a tutti condizioni decenti di vita, indipendentemente dalla lotteria della nascita.

Il paradosso di Sapolsky

A questo punto emerge un paradosso che molti critici hanno notato. Se Sapolsky ha ragione, anche il suo libro è determinato. Lui non ha "scelto" di scriverlo — è stato il prodotto inevitabile della sua biologia, della sua formazione, delle sue esperienze. E se io leggo il libro e cambio idea sul libero arbitrio, anche quel cambiamento è determinato. Non ho "scelto" di essere convinto — sono stato convinto da cause su cui non avevo controllo.

Questo solleva una domanda scomoda: perché Sapolsky si sforza tanto di convincerci? Se le nostre credenze sono determinate, che senso ha argomentare? La risposta di Sapolsky è pragmatica: le argomentazioni sono parte della catena causale. Leggere un libro può cambiare il modo in cui i neuroni di una persona si attivano, e questo può cambiare il suo comportamento futuro. Il determinismo non rende inutile la persuasione — la rende semplicemente parte del flusso causale del mondo.

Ma c'è un paradosso più profondo. Sapolsky scrive con passione morale. Vuole che il mondo diventi più compassionevole, che smettiamo di giudicare, che trattiamo i criminali come malati invece che come colpevoli. Ma se il libero arbitrio non esiste, questa passione morale è essa stessa determinata. E le persone che continueranno a credere nel libero arbitrio e a giudicare gli altri non possono fare altrimenti — sono determinate a farlo. Giudicarle per questo sarebbe contraddittorio.

Sapolsky accetta questa conclusione. Non giudica chi continua a credere nel libero arbitrio. Ma spera che il suo libro, come causa nel mondo, contribuisca a spostare alcune persone verso una visione più determinista e, quindi, più compassionevole.

Kevin Mitchell: il neuroscienziato che dice il contrario

È significativo che nello stesso mese di ottobre 2023 in cui uscì "Determined", un altro neuroscienziato pubblicò un libro con la tesi opposta. Kevin Mitchell, genetista e neurobiologo al Trinity College di Dublino, in "Free Agents" sostiene che la scienza contemporanea supporta l'esistenza del libero arbitrio.

L'argomento di Mitchell è sottile. Non nega che i geni e l'ambiente influenzino il comportamento — sarebbe assurdo negarlo. Ma sostiene che c'è una differenza cruciale tra "influenzare" e "determinare". I fattori genetici e ambientali sono, nelle sue parole, "distali, indiretti e non esaustivi". Plasmano le nostre disposizioni, ma non dettano ogni singola azione.

Mitchell punta sull'emergenza: la complessità del cervello fa emergere proprietà che non sono predicibili dalle parti componenti. La coscienza, la deliberazione, la capacità di riflettere sulle proprie motivazioni — queste sono capacità reali che fanno parte della catena causale. Quando deliberiamo, stiamo effettivamente causando le nostre azioni in un modo che è irriducibile alla semplice neurobiologia.

Il fatto che due neuroscienziati di primo livello possano guardare le stesse evidenze scientifiche e arrivare a conclusioni opposte suggerisce qualcosa di importante: la questione del libero arbitrio non è puramente empirica. Ci sono questioni concettuali — cosa significa esattamente "libero arbitrio"? cosa significa "poter fare altrimenti"? — che la scienza da sola non può risolvere.

I filosofi rispondono

La comunità filosofica ha accolto "Determined" con rispetto misto a frustrazione. Il rispetto è per la capacità divulgativa di Sapolsky e per la sua onestà intellettuale. La frustrazione è per quello che molti vedono come un'incomprensione della letteratura filosofica.

La critica principale è che Sapolsky assume una definizione di libero arbitrio — quella "libertaria", che richiede di essere non-causati — e poi dimostra che questa definizione è incompatibile con la scienza. Ma la maggior parte dei filosofi contemporanei non accetta quella definizione. I compatibilisti sostengono che essere liberi significa essere causati nel modo giusto: dalle proprie deliberazioni, dai propri valori, dalle proprie ragioni. Questa forma di libertà è perfettamente compatibile con il determinismo.

Sapolsky liquida i compatibilisti come intellettualmente disonesti, ma non offre argomenti convincenti sul perché la loro definizione sia sbagliata. Semplicemente afferma che non corrisponde a quello che la "gente comune" intende per libero arbitrio. Ma è discutibile che la gente comune abbia una concezione chiara e coerente del libero arbitrio, e anche se l'avesse, questo non renderebbe automaticamente corretta quella concezione.

Un'altra critica riguarda le implicazioni pratiche. Sapolsky sostiene che abbandonare il concetto di responsabilità morale ci renderà più compassionevoli. Ma i critici obiettano che potrebbe renderci anche più passivi e fatalisti. Se nulla di quello che faccio è veramente "mia" responsabilità, perché sforzarmi di migliorare? Perché lottare per la giustizia? Perché indignarmi per le ingiustizie?

Sapolsky risponderebbe che anche la motivazione a migliorare il mondo è determinata, e che il suo libro può essere parte delle cause che la producono. Ma è una risposta che lascia molti insoddisfatti.

Cosa resta

Alla fine di questo viaggio attraverso le idee di Sapolsky, cosa resta? Probabilmente non una conversione al determinismo duro. L'argomento ha troppi buchi filosofici, e le sue implicazioni pratiche sono troppo difficili da integrare nella vita quotidiana. Continuiamo a trattarci come agenti responsabili, e probabilmente continueremo a farlo.

Ma qualcosa può restare anche senza la conversione completa. Sapolsky ci invita a guardare con più attenzione alle cause del comportamento, a chiederci sempre "perché questa persona ha fatto quello che ha fatto?" prima di giudicarla. Ci ricorda che ogni essere umano è il prodotto di una storia che non ha scelto, e che la compassione è quasi sempre più appropriata del giudizio.

Ci sono momenti in cui questa prospettiva è particolarmente preziosa. Quando vediamo un senzatetto e ci viene spontaneo pensare "se l'è cercata", possiamo chiederci: ma davvero? Che catena di eventi lo ha portato lì? Quando nostro figlio si comporta male, possiamo chiederci: cosa sta succedendo nel suo cervello, nel suo ambiente, nelle sue relazioni, che produce questo comportamento? Quando noi stessi facciamo qualcosa di cui ci vergogniamo, possiamo essere un po' più gentili con noi stessi, riconoscendo che anche il nostro fallimento ha delle cause.

Questa non è la conclusione radicale che Sapolsky vuole. Lui vuole l'abolizione completa del concetto di merito e la rivoluzione del sistema penale e della struttura economica. Ma forse una versione più modesta della sua visione — più attenzione alle cause, meno giudizio, più compassione — è già un guadagno significativo.

E forse, tornando ai babbuini con cui abbiamo iniziato, la lezione più profonda è questa: siamo animali sociali, prodotti di gerarchie e relazioni che plasmano la nostra biologia. Non possiamo scegliere da soli chi siamo. Ma come Forest Troop ha dimostrato, la cultura può cambiare, anche in modi sorprendenti. E se questo è vero per i babbuini, forse è vero anche per noi.

La domanda è solo quali cause produrranno quel cambiamento. E forse libri come questo, letti in mattine d'inverno con una tazza di caffè, possono essere una di quelle cause.

Fonti principali:

Sapolsky, R. M. (2023). Determined: A Science of Life Without Free Will. Penguin Press.

Mitchell, K. J. (2023). Free Agents: How Evolution Gave Us Free Will. Princeton University Press.

Sapolsky, R. M. (2017). Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst. Penguin Press.

Sapolsky, R. M., & Share, L. J. (2004). A pacific culture among wild baboons. PLoS Biology.

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